sabato 5 giugno 2010

GIARDINO



Testo scritto in occasione del progetto “Lanscape Joining The Dots” - 16 maggio 2010





“E’ mia opinione che questi giardini non dovrebbero esser giudicati dalla loro forma, ma dalla loro attitudine a tradurre una certa felicità di esistere”. I giardini di cui parla Gilles Clément nel libro “Il giardino in movimento”, esibiscono differenze strutturali particolarmente significative rispetto all’idea che la storia e la critica del paesaggismo ci consegnano. Il giardino storicamente ricalca quell’ aspirazione tutta umana di prevenire il caos applicando alla natura uno schema ordinato di classificazioni e nomenclature che sono proprie della scienza. Il giardino è dunque intrinsecamente depositario di un ordine, di una logica interna e di una finalità. Di tutte le tipologie in tutte le epoche, rinascimentali o all’inglese, “conclusi” o aperti, i giardini hanno rappresentato la natura in una veste rassicurante ed accogliente. Oggi invece, mentre si cerca di ridefinire il rapporto che ci lega allo spazio vegetale ed animale secondo modalità inoffensive di rispetto e salvaguardia, assillati dall’idea dell’irrimediabilità di certi atteggiamenti di sopraffazione e sfruttamento che l’uomo ha perpetrato a danno di se stesso e dunque della natura, v’è un ripensamento del concetto di giardino- “la natura è vagabonda” dice Clément -, nel senso più creativo e animato che esista: si rigenera e organizza al di fuori delle tassonomie e delle schematizzazioni. Allora penetrare in uno spazio dove non sono le geometrie delle aiuole e dei vialetti a scandire la via e orientare il passo, bensì l’incontro e lo scontro degli elementi botanici, i colori che non si armonizzano, i cespugli e i rovi, le piante non disgiunte ma in continua contaminazione tra loro, significa riformulare l’ordine e la posizione dell’essere umano entro il naturale, perché il giardino lo fa e lo pratica la natura, con o senza l’uomo. Il contemporaneo dunque ripensa il giardino, esteticamente ed eticamente come immagine della mobilità.

GRANDE CERRO

Testo scritto in occasione del progetto “Lanscape Joining The Dots” - 16 maggio 2010



Il cerro che si trova nei campi a sud della Fondazione può essere il punto di partenza per raccontare alcune delle trasformazioni che questo territorio ha attraversato negli ultimi cinquant’anni: gli interventi che la speculazione edilizia avrebbe potuto produrre in questo paesaggio. Non distante da questo albero c’è ancora la traccia di una strada che doveva servire come diramazione della Via Santa Cornelia.
Tra gli anni cinquanta e sessanta erano infatti previste lottizzazioni del territorio per edificare unità abitative residenziali; i terreni da edificabili erano già stati destinati all’agricoltura con la licenza tuttavia ancora di potervi in parte costruire. Uno dei progetti della speculazione prevedeva un centro abitativo con ville, piscine e supermarket, proprio sulla superficie dove si trova il cerro accanto a quella strada che ancora vediamo. Il fatto che tutta questa area di circa dodici ettari sia stata acquistata da un privato nel 1973 ha bloccato, almeno su questa superficie, ogni tentativo di speculazione edilizia. Alla fine degli anni novanta un ulteriore e definitivo provvedimento, ovvero l’istituzione del Parco di Veio, dichiarava tutta la zona che si estende dalla periferia di Roma per una superficie di circa quindicimila ettari, area protetta. Il parco così soggetto a vincolo storico e archeologico, sradicava in maniera definitiva il malcostume politico e anche culturale che per molti anni non aveva che progettato trasformazioni del paesaggio nella direzione della speculazione edilizia e dello sfruttamento commerciale del territorio. Tutto ciò aveva inoltre favorito il fenomeno della cosi detta “edilizia spontanea”, ovvero dell’abusivismo, che ha in pochi anni ha fatto emergere interi quartieri.

PICCOLO CERRO

Testo scritto in occasione del progetto “Lanscape Joining The Dots” - 16 maggio 2010


Grande come si estende un campo, prova ad estendersi il pensiero di esso. Un piccolo esemplare di Quercus Cerris, nascosto tra la vegetazione, offre ampi margini di riflessione. Antiche le tematiche: il desiderio dell’uomo di organizzare lo spazio, di vincere il caos e dare una fisionomia alla natura, un’ansia ancestrale di controllo e sottomissione, possono alterare definitivamente le dinamiche del naturale. L’arbusto che conosciamo è la silenziosa conferma di quel tentativo di riguadagnare terreno dove l’ordine dell’uomo non ha previsto che vi fosse. Ha un gambo esile che si innesta nel terreno come una promessa, foglie che si protendono come a rivendicare una propria autonomia. Si può argomentare che la natura è sempre un discorso “ex novo”, riafferma se stessa secondo nuove modalità, nella nuova veste di tutte le piante che costituiscono il suo lessico di volta in volta. Le “specie pioniere” ad esempio, sono le più battagliere e generose fra le piante: riconquistano i terreni impoveriti o degradati creando le premesse per nuovi insediamenti vegetali dopodichè muoiono.
Il cerro sarà una piccola nota di un ottimo fieno ma la mattanza delle piante di un antico campo di orzo non preoccupa: la natura infatti rigenera se stessa con la stessa tenacia con cui il contadino cerca di arginarla. E’un movimento ciclico di generazione e riassorbimento, meccanica ed entropia.
Il cerro diviene una possibilità di scrittura di un paesaggio ancora diverso, da zolla di terra incolta, a fitta trama di spighe di orzo; oggi lo consideriamo un atto di resistenza nei confronti dell’uomo abituato a sovrapporre alle cose i suoi bisogni, scopi e profitti.

giovedì 3 giugno 2010

BOSCO

Testo scritto in occasione del progetto “Lanscape Joining The Dots” - 16 maggio 2010


“Nel mezzo del cammin di nostra vostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura,
che la dritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
Esta selva selvaggia e aspra e forte
Che nel pensier rinnova la paura!”
(Inf,I,1-6)


Il bosco è un luogo al quale ci si può avvicinare in modo sempre diverso a seconda delle nostre
personalità ed esperienze. A volte la paura di questi luoghi ha origine nel ”non sapere” (ancora), o dal senso dell’avventura, nuova, che si può iniziare.
Può essere l’immagine di un luogo incontaminato o di un luogo spaventoso, di un luogo in cui rifugiarsi o in cui trovare una sosta. L’ambivalenza del bosco è proprio questa: ciò che spinge verso di esso è anche ciò allontana. Anche per questo, è stato considerato da sempre il luogo ideale nel quale ambientare racconti ed ogni tipo di fiaba. Nel bosco infatti, la normale dimensione delle cose muta: gli esempi sono molti e in particolare Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll. Qui il personaggio viene catapultato in un luogo ameno dove le più diverse specie vegetali ed animali prendono vita per partecipare positivamente o negativamente all’esperienza unica della protagonista. I fiori e gli animali della fiaba, le ombre e la luce che filtrano attraverso gli alberi, assumono aspetti diversi, acquisiscono facoltà magiche fino ad esprimere connotazioni del bosco prima immaginate solo nella mente. Ed è nella mente che per lungo tempo tali aspetti vengono custoditi. La psicanalisi studia proprio i processi attraverso i quali la rimozione del desiderio e la frustrazione delle proprie capacità e risorse assuma forme simboliche (sublimate) nei sogni, nelle fantasie e nelle fiabe. Per Carl Gustav Jung, ad esempio, lì nascono gli archetipi. Pertanto l'inconscio può esprimersi nell'immagine archetipica del grande bosco o del mare che l'eroe o l'eroina della fiaba devono attraversare. Il bosco diventa così il luogo dell’immaginario, del fantastico e spesso delle forze naturali ancora originarie. (Valentina Lanzara).

LA VIA DEI CANI

Testo scritto in occasione del progetto “Lanscape Joining The Dots” - 16 maggio 2010


Anche noi esseri umani siamo animali. Come loro, nel corso dei secoli ci siamo modificati ed evoluti rapportandoci e confrontandoci con l’ambiente circostante; ciò che da essi ci distingue è stata la parola (il linguaggio) con cui “diciamo” la nostra capacità di “intendere e di volere”. Aristotele diceva: “L’uomo è un animale parlante” .

E’ questa che ci ha portato ad avere con gli animali un atteggiamento di superiorità. L’uomo ha sfruttato gli animali per il proprio sostentamento; questi ultimi hanno perso nel tempo la loro natura istintiva a selvaggia: sono stati trasformati in animali domestici. Oggi con l’innovazione tecnologica sono ulteriormente state modificate le loro abitudini alimentari come anche le loro caratteristiche fisionomiche. Siamo anche arrivati a imporci sulla genetica degli animali tagliando loro orecchie, code e stabilendo l’accoppiamento tra animali di una stessa razza. La loro libertà originaria è stata limitata, trasformata, annullata. Ciò che non siamo riusciti ancora a modificare, è tuttavia la loro capacità di relazionarsi con l’ambiente. “La via dei cani” ne è un esempio: se pur addomesticato e costretto entro i limiti imposti dai recinti, questo animale, il cane, riesce a conservare la propria natura e il proprio istinto percorrendo territori e creando strade. Le strade si formano giorno per giorno, ripetendo lo stesso itinerario per abitudine, con il risultato di avere a disposizione vie più facilmente praticabili, sicure, già provate. Così facevano i cani prima di diventare gli animali domestici che conosciamo e così continuano a fare animali che in altri luoghi vivono ancora allo stato brado. (Valentina Lanzara)




domenica 30 maggio 2010

RECINTO

Testo scritto in occasione del progetto “Lanscape Joining The Dots” - 16 maggio 2010



In principio fu...l'istinto (?).

Milioni di anni fa il primate vive con gli altri coinquilini terrestri, piante e animali.
In un ambiente già biodiversificato, quotidianamente fa i conti con la sua sopravvivenza, coesiste, lotta e resiste ai processi di selezione naturale.

In seguito fu il recinto.

Quando l'uomo scopre l'importanza dell'agricoltura e dell'allevamento, passa da una fase in cui è lui a doversi adattare a tutto ciò che lo circonda, ad un processo d'appropriazione e controllo del territorio, ponendosi gradualmente in una posizione di potere rispetto alle altre specie viventi e simultaneamente producendo differenze sociali: si passa da un'economia di sussistenza ad un modello di crescita basato sull'accumolo di bene.
L'uomo ha ora un nuovo status sociale: ha la proprietà di un recinto, sulla quale ha il potere di dirigere risorse umane e materiali.
Solcare un confine tra Un interno e l' esterno ha dato origine alla dicotomia oppositiva cultura-natura, nella quale l'uomo si sente demiurgo e governatore.
Tutti i meccanismi di selezione sembrano ora essere nelle sue mani e direttamente proporzionali al dictat economico.

E furono i confini.

L'uomo modifica e controlla il territorio definendolo giuridicamente, stabilendo così il ruolo del singolo individuo rispetto alla comunità di appartenenza, e la stessa rispetto alle altre comunità.
Il recinto si allarga e prende la forma della frontiera: immaginata, percorsa o rivendicata.